UN'ECONOMIA AGRICOLA PER UNA CIVILTÀ URBANA
Quando si parla di
«civiltà classica» ci si riferisce a quei dieci secoli scarsi
che stanno a cavallo dell'era cristiana, dall'ascesa di Atene alla guida del
mondo greco, nel V secolo a.C., al crollo dell'impero romano in Occidente, nel V
secolo d.C. L'ambito geografico di questa civiltà ha coinciso grosso modo
con il bacino del Mediterraneo, anche se i confini dei grandi imperi che vi si
sono succeduti si sono spinti in certi periodi sino alle sponde del Golfo
Persico, dell'Oceano Indiano o del Mare del Nord. All'inizio dell'era cristiana
per effetto delle conquiste romane i popoli del Mediterraneo avevano raggiunto
un'effettiva unità non solo politica, ma anche economica e culturale, che
si è mantenuta per circa mezzo millennio a dispetto delle persistenti
differenze di lingua e di costumi tra l'oriente ellenizzato e l'occidente
latino.
Non c'è pericolo di sopravvalutare il ruolo che in questa
unità hanno giocato il mare e i fiumi. Una caratteristica dell'economia
antica è la sua pressoché totale dipendenza dalle vie d'acqua.
All'inizio dell'età classica i progressi nelle tecniche di costruzione
navale e di navigazione avevano reso il costo del trasporto marittimo (o
fluviale) incomparabilmente inferiore a quello del trasporto terrestre: una
situazione destinata a non cambiare sensibilmente fino all'avvento delle
ferrovie. In età romana il trasporto di un carico pesante per un tratto
di un centinaio di chilometri su terraferma costava di più della sua
spedizione per via di mare dalla Siria alla Spagna, ossia da un capo all'altro
del Mediterraneo. Il costo del trasporto via mare di un carico di grano dalla
Spagna a Roma poteva arrivare a un terzo del valore del carico. Ma il trasporto
su strada di un frantoio per olive (sempre sulla distanza di un centinaio di
chilometri) costava quanto il frantoio stesso, il che significa che entro questo
raggio era largamente conveniente attrezzarsi per fabbricarlo
direttamente.
Gli alti costi dei trasporti terrestri scoraggiavano
l'accentramento delle attività manifatturiere e favorivano la
proliferazione sul territorio di piccole unità produttive. Si spiegano
così, almeno in parte, le dimensioni per lo più ridotte delle
imprese produttrici e il grado piuttosto basso di divisione e specializzazione
del lavoro all'interno delle officine. Gli esempi di produzione su larga scala e
di accentuata divisione del lavoro non mancano, ma sono sempre connessi
all'esistenza di una solida organizzazione nel settore del trasporto marittimo o
comunque alla vicinanza di porti e di vie d'acqua. Plinio il Vecchio (23-79
d.C.) parla come di un caso assolutamente eccezionale di certi candelabri i cui
boccioli (che sono le parti dove si infilano le candele) e i fusti relativi
erano fabbricati separatamente, gli uni in Egina e gli altri a Taranto, per
essere poi montati insieme. Lontane nello spazio, Egina e Taranto, più
che separate, erano unite dal mare. In ogni caso quei candelabri pare che
fossero carissimi: «non ci si vergogna - commentava Plinio - di acquistarli
per una somma equivalente alla paga di un tribuno militare».
Quella
classica è stata una civiltà prevalentemente urbana: nata nelle
città-stato della Grecia, ha avuto più tardi i suoi grandi centri
di diffusione nelle metropoli ellenistiche di Alessandria (in Egitto), Antiochia
(in Siria) e Seleucia (in Mesopotamia, vicino all'antica Babilonia). L'impero
romano è stato l'erede di questa tradizione: un impero cittadino, in cui
le caratteristiche della classe dirigente e le forme del potere hanno ripetuto
per secoli quelle dell'antica Roma repubblicana, e che si è costruito
stendendo sulle regioni di nuova conquista (specialmente in Occidente) una fitta
rete di centri urbani che riproducevano all'infinito il modello della
capitale.
Le città e le colonie romane erano dotate di larga
autonomia. Anche quando il potere imperiale cercò di adeguarsi alla
vastità e alla complessità dell'organismo che da lui dipendeva e
di esercitare dal centro un più efficace controllo sulla vita delle
provincie, la maggior parte delle funzioni amministrative, comprese quelle che
riguardavano direttamente affari di interesse generale, come la raccolta delle
tasse o la leva militare, restò di pertinenza dei consigli cittadini e
del ceto «decurionale» che li esprimeva.
Se la civiltà del
mondo classico era urbana, la sua economia era invece essenzialmente rurale. La
totalità (o quasi) della ricchezza veniva prodotta nelle campagne e,
rispetto alla schiacciante prevalenza della produzione agricola, il valore dei
beni prodotti dal piccolo artigianato urbano o dalle poche grandi manifatture
esistenti risultava modesto. I grandi patrimoni privati si erano formati tutti
(o quasi) nell'agricoltura ed erano costituiti soprattutto da proprietà
fondiarie. Tra le città i grandi centri commerciali erano rari e ancora
più rari quelli che dovevano la propria prosperità all'artigianato
o alla manifattura. Il solo settore manifatturiero che avesse alcune
caratteristiche dell'industria moderna, come la produzione in grande serie e la
standardizzazione del prodotto, era quella delle fornaci: mattoni, tegole,
anfore da vino e da grano venivano fabbricati in milioni di esemplari tutti
uguali. Ma si trattava di un'attività assai diffusa sul territorio (dove
ha lasciato parecchie tracce della toponomastica: Figline Valdarno, ad esempio,
viene da figulinae o figlinae che indica il mestiere del vasaio) e raramente
dava vita a impianti di grandi dimensioni.
La città-tipo dell'impero
romano aveva una triplice funzione: di sede delle autorità civili e
militari, di mercato per i prodotti delle campagne, di residenza per i
proprietari terrieri del distretto, la cui vita sociale si svolgeva di norma in
città. Questi stessi proprietari costituivano la grande maggioranza del
ceto decurionale e monopolizzavano gli uffici municipali. Quanto alle
attività produttive, erano essenzialmente rivolte a soddisfare i bisogni
dei distretti rurali di cui le città erano centro. Insomma,
anziché esprimere (come sarebbe più tardi successo nell'Europa
medievale) una specifica economia urbana e un'ambizione di dominio sulle
campagne circostanti, le città del mondo classico vivevano in funzione
delle campagne, a cui offrivano alcuni indispensabili servizi di carattere
prevalentemente amministrativo.
La preminenza delle funzioni amministrative
delle città su quelle commerciali e manifatturiere collimava
perfettamente con il ruolo di primo piano che lo Stato, e in primo luogo
l'esercito, svolgeva nell'economia dell'impero romano. L'assortimento dei
prodotti offerti dalle manifatture cittadine era limitato; ma altrettanto
limitata era la domanda da parte dei privati. Solo la ristretta classe dei
grandi proprietari terrieri poteva accedere a prodotti di pregio e per quanto
ricco fosse l'arredo delle loro case, si trattava pur sempre di pochi generi:
tessuti, ceramiche, mobili e gioielli. Quanto agli oggetti d'uso corrente, il
consumatore di gran lunga più importante era l'esercito e le sole
industrie capaci di elevati volumi di produzione (non ultime le industrie
minerarie) erano quelle che lavoravano per le necessità della guerra.
Nell'Impero romano, però, le forniture per l'esercito erano assicurate da
fabbriche gestite direttamente dallo Stato e nelle quali il lavoro era quasi
interamente affidato agli schiavi, sicché per l'iniziativa dei privati e
per il lavoro degli artigiani liberi restava ben poco.
Oltre che grande
consumatore, l'esercito era il destinatario della parte più consistente
degli investimenti pubblici per la costruzione di tutte quelle opere che erano
necessarie a mantenere in efficienza l'apparato difensivo (strade, forti,
città, porti militari, acquedotti, ecc.). L'esercito, infine, costituiva
un grande serbatoio di manodopera: molte opere pubbliche venivano infatti
direttamente costruite dai legionari. Ancora più importante, forse, era
il contributo dei veterani alla fondazione di colonie agricole, che d'altra
parte, specialmente nelle regioni di frontiera, erano spesso destinate ad
assicurare il vettovagliamento delle guarnigioni locali. Così, la
presenza di consistenti reparti dell'esercito era la migliore (e spesso l'unica)
opportunità di sviluppo economico che potesse darsi. E poiché le
frontiere settentrionali dell'Impero erano quelle dove di norma era concentrato
il grosso delle legioni romane, le aree al di qua del Reno e del Danubio sono
state quelle di più intensa colonizzazione e di più vivace
attività economica.
DECURIONE
«Decurione» (derivato dal latino
decem = «dieci») significa propriamente «comandante di un gruppo
di dieci» («decuria»). Il termine però ha finito per
indicare anche i membri dei consigli cittadini, ossia il ceto dirigente di
municipi e colonie romane. Reclutati esclusivamente tra i cittadini agiati e
dotati di un certo prestigio sociale, i decurioni appartenevano per lo
più alla classe dei proprietari terrieri. Nel tardo Impero andarono a
costituire insieme ai cavalieri e ai senatori il gruppo detto degli honestiores
(= «i più onorati», da honestas =
«onorabilità») in contrapposizione agli humiliores (= «i
più umili»).
LE TECNICHE NELL'ETÀ CLASSICA
L'utilizzazione dell'energia comporta l'uso
di convertitori, cioè di strumenti atti a trasformare l'energia naturale
in energia utile all'uomo. La macchina a vapore, per esempio, è un
convertitore che trasforma l'energia termica in energia meccanica; anche il
corpo umano è un convertitore in quanto trasforma la energia chimica
contenuta nei cibi in energia meccanica e in energia nervosa. Da un punto di
vista strettamente tecnico si può dire che l'unico convertitore a
disposizione di chi sa sfruttare solo la propria forza è il suo corpo.
Per l'uomo primitivo il proprio corpo era di gran lunga il convertitore
più importante e le principali fonti di energia a cui si rivolgeva erano
quelle che gli permettevano di mantenersi in vita, cioè le piante e gli
animali in quanto possibili alimenti. Tuttavia l'uomo imparò presto il
modo di amplificare la propria forza e poi di sfruttare l'ambiente in maniera
più produttiva.
La grande svolta in questo senso fu segnata, come
abbiamo detto più volte, dalla nascita di un'economia fondata sulla cura
dei campi e sull'allevamento. Un campo coltivato è un ambiente
artificiale che si può considerare come un convertitore di energia di
grande efficienza. Si cominciò anche ad applicare la forza degli animali
nei lavori agricoli e nel trasporto di carichi pesanti. I progressi in questo
settore furono piuttosto lenti: le prime imbrigliature risalgono al 3000 a.C. e
la scoperta della ruota al 3500 a.C. circa, ma una bardatura efficiente per
mezzo di un collare rigido fu introdotta solo dopo il 400 d.C. e l'uso del ferro
di cavallo non è anteriore al 400 a.C. A quella degli animali si
affiancò l'utilizzazione di un'altra forma di energia, questa volta non
organica, l'energia eolica, per il trasporto marittimo (vele).
Infine, con
la metallurgia, cioè l'arte dell'estrazione e del trattamento dei
metalli, le possibilità umane divennero enormi, permettendo la creazione
di una strumentistica altamente sofisticata.
Nel tentativo di superare i
limiti della propria forza fisica l'uomo primitivo aveva elaborato dei
dispositivi che utilizzavano tutti o quasi i congegni meccanici fondamentali,
leve, molle, ruote, ecc., che pertanto sono difficilmente databili. Costruiti
per lo più con materiali deperibili, come legno, corno e osso, almeno per
le età più remote non se ne sono conservate tracce, il che
però non significa che non esistessero. Talvolta le più antiche
testimonianze della loro esistenza sono costituite da raffigurazioni in pitture
parietali o incisioni rupestri, più durature.
Possiamo supporre che
il più semplice dei dispositivi per moltiplicare una forza, la leva, sia
stato utilizzato fin dagli inizi del genere umano: in effetti, il principio
della leva si riscontra in modo così diffuso ed evidente in natura ed
è di così generale applicazione che è impossibile
immaginare che qualcuno l'abbia «inventato». Lo stesso, naturalmente,
non si può dire per le sue applicazioni consapevoli, frutto cioè
di un progetto, né, tanto meno, per le sue teorizzazioni. Per una
compiuta teoria della leva, per esempio, bisogna aspettare il III secolo a.C. e
il singolare talento matematico di Archimede di Siracusa.
Tra le più
antiche e importanti applicazioni della leva si possono annoverare i remi e le
pagaie per la propulsione e per la direzione delle imbarcazioni, un tipo di
strumenti che ha subito nel corso del tempo innumerevoli modificazioni,
perfezionamenti e adattamenti. Sul principio della leva funziona anche lo
shaduf, un dispositivo per sollevare l'acqua caratteristico delle prime
società agricole e ancora largamente usato nel Vicino Oriente per
l'irrigazione di campi e giardini. Si tratta di un telaio in legno o di un
semplice palo, sul quale è imperniato un bilanciere che ha da una parte
un secchio per l'acqua e dall'altra un contrappeso che consente di sollevare il
secchio senza sforzo. In Egitto le più antiche rappresentazioni dello
shaduf risalgono al II millennio a.C.
Tra il secondo e il primo millennio
a.C. il principio della leva fu applicato alla spremitura dell'uva e delle
olive. Nella fabbricazione dell'olio, prima della spremitura, occorreva separare
la polpa delle olive dai noccioli mediante una grossolana macinazione. La polpa,
raccolta in modo da far colare il liquido in un recipiente sottostante, veniva
poi collocata sotto la pressa, costituita da una pesante trave di legno
incernierata a una estremità. La pressione della trave veniva aumentata a
volontà con l'aggiunta di pesi alla sua estremità libera o per
mezzo di un congegno ad argano. Questo semplice apparato è rimasto in uso
per lunghissimo tempo evolvendosi in diverse varianti, la più evoluta
delle quali (progenitrice di tutti i tipi di pressa o torchio moderni) presenta
al posto dei pesi o dell'argano un meccanismo a vite che agisce direttamente sul
coperchio della pressa.
Delle applicazioni del moto rotatorio abbiamo
già parlato a proposito della ruota del vasaio, della ruota per carri (da
trasporto o da guerra) e delle mole rotanti per la macinazione del grano. Ma le
applicazioni dello stesso principio sono innumerevoli e alcune, come il trapano
per praticare fori o il trapano da fuoco, sono assai più antiche della
ruota del vasaio e di quella da carro. Un esempio di utilizzazione del piano
inclinato lo abbiamo incontrato parlando delle rampe con cui gli Egizi
trascinavano sino all'altezza voluta i grandi massi adoperati nella costruzione
delle piramidi.
Anche il funzionamento delle molle ha in natura
innumerevoli riscontri. Molti dei più antichi strumenti costruiti
dall'uomo sfruttavano l'elasticità dei corpi (alcuni tipi di trappole,
per esempio). Fra tutti l'arco rappresenta un'applicazione particolarmente
geniale di questo principio. L'arco è stato per millenni una micidiale
arma per la caccia e per la guerra. Ne esistono raffigurazioni che risalgono al
Paleolitico superiore. I più antichi esemplari conservati sono invece del
Mesolitico: si trattava di armi già perfezionate, costruite in legno
d'olmo o di frassino, con l'impugnatura rotonda e le estremità piatte
rastremate, tali cioè da offrire la migliore combinazione di
flessibilità e resistenza. In età storica sono comparsi archi
composti, costruiti cioè con tre strati di materiali diversi incollati
insieme, in modo da aumentare la potenza e la solidità del tutto:
all'esterno della struttura elastica in legno si usavano tendini di animali (che
presentano una forte resistenza alla tensione), e all'interno uno strato di
corno (che presenta un'ottima resistenza alla compressione).
L'adozione di
questi semplici dispositivi (e di altri come il cuneo o la carrucola) hanno
segnato una tappa decisiva nello sviluppo delle capacità umane di
amplificare la forza muscolare. Una volta adottati, però, la spinta alla
realizzazione di macchine più complesse, che, mediante l'applicazione
combinata di quei meccanismi elementari, consentissero un decisivo risparmio di
lavoro umano, è parsa esaurirsi. Qualcuno ha detto che teoricamente i
Sumeri, se avessero voluto, sarebbero stati in grado di costruire una
bicicletta, e che, semplicemente, non l'hanno fatto. Si tratta, come è
evidente, di una battuta: il fatto che né loro, né altri dopo di
loro abbiano mai fabbricato niente di simile fino al secolo scorso non è
certo attribuibile a sbadataggine o a pigrizia. È vero però (ed
è quello che la battuta sui Sumeri intende suggerire) che, dopo gli
straordinari successi realizzati dall'umanità con la messa a punto delle
tecniche agricole e poi di quelle metallurgiche, c'è stato un
rallentamento del progresso tecnico, quasi che l'assimilazione e la
generalizzazione di quel che si era conquistato richiedesse un lungo periodo di
assestamento.
In questo periodo di relativa stasi, durato, si può
dire, sino a un migliaio di anni fa, sono stati apportati numerosi
perfezionamenti agli antichi congegni e non sono mancate ingegnose invenzioni,
ma non si è verificato alcun «salto tecnologico» e niente di
veramente rivoluzionario si è affermato nei metodi di produzione. Si
chiama «fase di stanca» il momento in cui l'alta marea, raggiunto il
suo massimo livello, vi resta per qualche tempo prima di decrescere. Non
c'è nulla di strano che qualcosa di simile sia avvenuto nello sviluppo
delle tecniche. C'è da sottolineare, semmai, che in questa fase di stanca
tecnologica è compreso l'intero arco temporale di quella civiltà
classica che (almeno per quanto riguarda la parte occidentale del Vecchio
Continente, che è l'area di cui ci occupiamo specificamente) ha
rappresentato il punto più alto dello sviluppo culturale del mondo
antico. La Grecia classica, per esempio, che pure ha iniziato la tradizione
scientifica occidentale elaborandone i metodi e i principi elementari (a
cominciare dalla nozione stessa di scienza), nel campo della tecnica ha prodotto
una serie piuttosto limitata di innovazioni.
Nelle costruzioni meccaniche e
nello sfruttamento dell'energia i progressi realizzati in Grecia tra il VI e il
IV secolo a.C. sono legati principalmente all'uso di congegni quali la
carrucola, la puleggia, l'argano e il verricello, che, dopo la ruota del vasaio,
hanno rappresentato forse la più importante applicazione del moto
rotatorio. Impiegati nella costruzione di opere monumentali per il sollevamento
di grossi blocchi di pietra o nelle miniere per portare in superficie il
materiale scavato, congegni di questo tipo sono stati largamente utilizzati dai
Greci anche in due settori assai diversi, ma ugualmente caratteristici della
loro cultura: la navigazione e il teatro. Da un lato pulegge e verricelli sono
entrati a far parte stabilmente dell'attrezzatura delle navi e dall'altro sono
andati ad arricchire gli apparati scenici: il proverbiale Deus ex machina (ossia
il Dio che, al termine di una commedia o di una tragedia, scendeva dal cielo a
scioglierne le intricate vicende) veniva calato sulla scena appunto per mezzo di
un sistema di carrucole e pulegge.
Un altro importantissimo dispositivo
introdotto dai Greci fu la vite, di cui abbiamo parlato a proposito delle presse
da vino o da olio. L'invenzione della vite è attribuita ad Archita di
Taranto, filosofo e matematico pitagorico del VI secolo a.C. Un apparato per il
sollevamento dell'acqua fondato sul principio della vite e chiamato dai latini
cochlea (= «chiocciola») per la caratteristica forma delle sue volute,
è tradizionalmente attribuito ad Archimede (è infatti detto
comunemente «vite di Archimede»), ma pare che fosse già da
tempo usato in Egitto per l'irrigazione. Nel mondo antico venivano costruite
prevalentemente viti di legno, ma dove era necessaria una maggiore precisione si
utilizzavano anche viti metalliche, realizzate avvolgendo attorno ad un cilindro
di legno una sottile lamina di metallo a forma di triangolo rettangolo, con uno
dei cateti parallelo all'asse del cilindro. Un dispositivo per ricavare una vite
da un cilindro di legno è descritto nel I secolo d.C. da Erone di
Alessandria.
Neppure i Romani, i cui maggiori titoli di merito nel campo
della tecnologia vanno forse cercati nell'edilizia e nella costruzione delle
grandi opere pubbliche (ponti, strade, acquedotti, ecc.), hanno introdotto
grandi innovazioni nella meccanica. Il sorgere e l'affermarsi della potenza di
Roma dettero senza dubbio un notevole impulso all'adozione di dispositivi
meccanici e alla fabbricazione di macchine ad uso militare e civile. In
maggioranza però si trattava di dispositivi e di macchine di tipo
tradizionale. L'unica importante eccezione è la ruota idraulica,
descritta nel I secolo d.C. da Vitruvio (un ingegnere romano, autore del De
Architectura, uno dei più celebri trattati del genere), ma che in forma
diversa era già stata utilizzata in Grecia un paio di secoli
prima.
La ruota ad acqua, diretta antenata della moderna turbina idraulica,
era davvero una macchina capace di rivoluzionare le tecniche produttive. A parte
le vele, che sfruttavano la forza del vento per la propulsione delle
imbarcazioni, si trattava del primo apparato capace di fornire potenza a spese
di energia non animale. Le possibili applicazioni di questa macchina (che
all'inizio fu utilizzata quasi esclusivamente per la macinazione dei grani)
erano innumerevoli e le sue fonti di energia (corsi e cadute d'acqua) erano
largamente disponibili ovunque. Ma la società antica non sapeva che cosa
farsene. Anche se non mancarono realizzazioni vistose, come il grande mulino di
Barbegal, vicino ad Arles, che era mosso da sedici ruote idrauliche accoppiate
ad otto livelli differenti, le sue potenzialità non vennero sfruttate in
modo generale e sistematico sino al Medio Evo.
MACCHINA, MECCANICA
«Macchina» viene dal latino
machina, che a sua volta deriva dal greco (dorico) makhanà =
«espediente», «congegno». Sempre da makhanà, ma
più antico, viene il termine del latino arcaico (e poi del latino
volgare) macina da cui l'italiano «macina» (ossia la mola, che essendo
la macchina più antica, è la macchina per antonomasia). Più
recente è invece il latino mechanica che viene dal greco (ionico)
mekhaniké [tékhne]. «Meccanica» è collegato con
«macchinazione» (latino machinatio dal greco mekhanàomai =
«medito un'astuzia»).
MACCHINE SEMPLICI
LEVA
La leva è una
macchina semplice costituita da un'asta rigida che gira intorno ad un punto di
appoggio fisso detto fulcro e sulla quale agiscono due forze dette
rispettivamente potenza e resistenza. La distanza tra il fulcro e il punto di
applicazione della potenza si dice braccio della potenza mentre la distanza tra
il fulcro e il punto di applicazione della resistenza si dice braccio della
resistenza. Se il fulcro si trova tra la potenza e la resistenza la leva si dice
di primo genere; se la resistenza si trova tra il fulcro e la potenza la leva si
dice di secondo genere; se è invece la potenza che si trova tra il fulcro
e la resistenza, la leva si dice di terzo genere. Sono leve di primo genere la
bilancia, le forbici, le tenaglie; sono leve di secondo genere il remo, la
carriola, lo schiaccianoci, la pressa a vite o a pesi che abbiamo descritto;
sono leve di terzo genere le molle, le pinze, l'avambraccio umano.
La leva
si dice vantaggiosa quando in condizioni di equilibrio la potenza è
minore della resistenza. Il principio di Archimede dice che la potenza P sta
alla resistenza R come il braccio della resistenza r sta al braccio della
potenza p:
P : R = r : p
In base a questa relazione
risulta evidente che le leve di primo genere sono vantaggiose quando il fulcro e
più vicino alla resistenza (r) che alla potenza (p), quelle di secondo
genere sono sempre vantaggiose, quelle di terzo genere sono sempre
svantaggiose.
Schematizzazione del funzionamento delle leve
CUNEO
Il cuneo è un prisma rigido la cui
sezione è un triangolo isoscele ABC, la cui base AB è detta testa,
e il lato BC è detto fianco. In teoria la potenza sta alla resistenza che
si esercita su uno dei fianchi come la lunghezza della testa sta alla lunghezza
del fianco (in pratica, per effetto degli attriti, occorre una potenza molto
superiore):
P : R = AB : BC
Questa macchina dunque risulta
tanto più vantaggiosa quanto più piccolo è l'angolo in C.
Sul principio del cuneo funzionano le scuri, i coltelli, gli aghi,
ecc.
PIANO INCLINATO
Il piano inclinato è una macchina
semplice che permette di sollevare il peso P mediante una forza F parallela al
piano stesso. Per mantenere l'equilibrio è necessario che il rapporto tra
la forza F e il peso P sia uguale al rapporto tra il lato BC e il lato AB del
triangolo ABC; ossia:
F : P = BC : AB
Quanto minore
sarà l'angolo in A, tanto minore sarà il lato BC e tanto minore,
quindi, la forza necessaria a mantenere l'equilibrio. Ciò significa che
con un piano poco inclinato sarà più facile sollevare il peso
P.
VITE
La vite è uno sviluppo del principio
del piano inclinato: e un piano inclinato arrotolato intorno al cilindro. Il
sistema vite-madrevite trasforma il movimento rotatorio della vite in un
movimento rettilineo della madrevite e viceversa, realizzando contemporaneamente
una grandissima moltiplicazione delle forze.
PULEGGIA
La puleggia e un sistema di trasmissione del
moto rotatorio per mezzo di funi, cinghie o catene costituito, come la
carrucola, da una ruota che gira intorno a un asse. Il principio di entrambe
è che una piccola forza applicata alla periferia della ruota (corona) si
trasforma in una grande energia in prossimità dell'asse (mozzo). La
corona è a gola se l'organo di trasmissione è costituito da una
fune o da una catena, ed è piana se l'organo di trasmissione è
costituito da una cinghia.
CARRUCOLA
La carrucola è una macchina semplice
per il sollevamento dei pesi, costituita da una ruota che gira intorno a un asse
fissato ad una staffa. Sul bordo della ruota è praticata una scanalatura,
detta gola, che ospita una fune o una catena che è l'organo di trazione.
La carrucola si dice fissa quando la staffa è assicurata a un sostegno
fisso e il peso da sollevare e attaccato ad un capo della fune; si dice mobile
quando al sostegno fisso è assicurato un capo della fune, mentre il peso
è attaccato alla staffa.
Schema di funzionamento di una carrucola
LE MINIERE
Il lavoro in miniera si era sviluppato come
vera e propria attività specializzata già in età neolitica,
quando la ricerca di buone varietà di selce aveva indotto i primi
minatori della storia a non accontentarsi degli affioramenti superficiali
(estrazioni a cielo aperto), e a scavare pozzi e gallerie sotterranee. Con lo
sviluppo della metallurgia le tecniche minerarie dovettero adeguarsi alle sempre
crescenti richieste di materia prima, intensificando sia la ricerca di nuovi
giacimenti sia, soprattutto, lo sfruttamento di quelli già noti. Le
pareti e i tetti delle gallerie venivano sostenuti con appositi puntelli e
travi. Il piccone, la mazza, lo scalpello e il cuneo erano gli utensili
prevalentemente usati per aprirsi il passo fra le rocce. Quando queste, per la
loro durezza, opponevano molto resistenza si faceva ricorso al fuoco. La roccia
veniva riscaldata e quando raggiungeva un'alta temperatura il fuoco veniva
spento e sulla superficie riscaldata si gettava dell'acqua: il brusco salto di
temperatura provocava la spaccatura della roccia. Il fuoco veniva anche
utilizzato per aumentare il tiraggio dei pozzi della miniera e per rinforzare
così la ventilazione delle gallerie. Le ceste contenenti il minerale
estratto venivano portate in superficie a dorso d'uomo, oppure legandole ad una
fune che si avvolgeva a un cilindro orizzontale o a più sofisticati
sistemi di pulegge e carrucole sistemati alla bocca del pozzo.
Grandi
difficoltà (che spesso diventavano insuperabili inducendo all'abbandono
del pozzo) si presentavano quando lo scavo raggiungeva il livello di una falda
acquifera. Per drenare pozzi e gallerie si usavano le «norie»,
impianti costituiti da una catena o cinghia chiusa che girava attorno a due
tamburi trascinando una serie di secchi o cassette, e le viti di Archimede (o
coclee), una tecnica quest'ultima diffusa soprattutto dai Romani. Ai Romani si
deve poi l'introduzione delle ruote ad acqua: in una miniera di Rio Tinto in
Spagna, l'acqua veniva sollevata per un'altezza di trenta metri per mezzo di una
serie di otto coppie di ruote. Il sistema più usato era però
sempre il semplice prosciugamento a mano. Nella sua Historia Naturalis, Plinio
il Vecchio parla di una miniera che forniva ad Annibale 135 kg di argento al
giorno, nella quale centinaia di portatori, disposti a catena lungo le scale dei
pozzi, si passavano ininterrottamente, giorno e notte, secchi di acqua
«formando così un grande fiume».
L'escavazione di pozzi e
gallerie e soprattutto il drenaggio delle acque costituirono per tutta
l'antichità problemi di difficile soluzione sia dal punto di vista
tecnico sia da quello economico, funzionando da fattori frenanti nello sviluppo
dell'attività mineraria. Finché il lavoro di estrazione poteva
avvenire a cielo aperto o i giacimenti risultavano relativamente accessibili, lo
sfruttamento delle miniere era affrontato anche da singoli artigiani
indipendenti; ma se si doveva scavare un impegnativo sistema di pozzi e gallerie
poteva rendersi necessario il concorso di centinaia o addirittura di migliaia di
persone. L'impresa poteva allora essere affrontata con successo solo da chi
possedeva i mezzi per reclutare una manodopera così numerosa e per
imporle un lavoro che non era solo faticoso e pericoloso, ma non di rado
veramente disumano. In linea di massima non poteva essere che lo Stato.
Condannare i criminali al lavoro forzato nelle miniere era uno dei modi in cui
le autorità pubbliche contribuivano a raccogliere la manodopera
necessaria. Tra i forzati la mortalità era altissima: damnare ad metalla
(come dicevano i giuristi romani) era una pena forse peggiore della morte, e in
ogni caso portava alla morte nel giro di qualche anno.
Uno dei principali
bacini minerari della Grecia classica era il distretto del Laurio, nell'Attica,
da cui gli Ateniesi ricavavano argento, mercurio, ocra, minio, cinabro. Con
un'estensione di circa ventimila ettari, il Laurio era stato, nel VI secolo a.C.
proprietà personale del tiranno Pisistrato, ma intorno al 510 a.C., con
l'avvento della democrazia in Atene, era stato sequestrato ai suoi eredi ed era
entrato a far parte del demanio della polis. Lo sfruttamento di pozzi e cave era
affidato ad appaltatori privati che versavano alla polis un sostanzioso canone
di affitto. Il frutto degli appalti, che nei primi decenni era stato distribuito
tra i cittadini, quando cominciò l'ascesa di Atene ad una posizione di
egemonia tra le città greche, fu soprattutto destinato a coprire le spese
per la flotta da guerra, principale (e costoso) strumento della potenza
ateniese.
Nei momenti di più intensa attività estrattiva, tra
la metà del V e la metà del IV secolo a.C., gli addetti alle cave
e alle miniere del Laurio giunsero ad essere trentamila. Ma l'occupazione
variava sensibilmente seguendo le oscillazioni del valore dell'argento: al tempo
di Alessandro Magno, ad esempio, quando l'argento perse quasi la metà del
suo valore, pare che l'attività estrattiva sia stata praticamente
abbandonata per non essere ripresa che un secolo più tardi, quando il
prezzo dell'argento tornò a livelli remunerativi.
La manodopera era
costituita in massima parte da schiavi e forzati e spesso erano schiavi anche i
soprastanti che dirigevano il lavoro per conto dei concessionari. I lavoratori
liberi costituivano una minoranza, ma conservarono sempre un certo peso nella
forza-lavoro complessiva. Una severa normativa relativa alle condizioni di
lavoro e alla prevenzione degli infortuni cercava di difendere, nell'interesse
stesso della polis, la manodopera dal supersfruttamento di appaltatori senza
scrupoli. I titolari delle concessioni per lo sfruttamento di pozzi e cave erano
infatti per lo più piccoli imprenditori dotati di scarsi mezzi e affamati
di guadagno, che prendevano a nolo da grandi proprietari di schiavi i lavoratori
di cui avevano bisogno e cercavano di spremere da loro tutto il possibile. Pare
che in ultima analisi fossero proprio i proprietari di schiavi a beneficiare
più largamente dei profitti dell'attività mineraria: dare a nolo
schiavi era un'attività assai più lucrosa di quella dei
concessionari che, stretti tra il canone dovuto alla polis e il costo degli
schiavi, raramente riuscivano ad accumulare un sia pur mediocre
patrimonio.
ACQUA PER LE CITTÀ
Nell'antichità la necessità
degli uomini di rifornirsi di acqua condizionava i loro insediamenti, tanto che
il passaggio dal villaggio agricolo autosufficiente ai grossi agglomerati
urbani, che richiedevano la disponibilità di ingenti quantitativi
d'acqua, si realizzò solo in prossimità di grandi fiumi. In
assenza di fiumi, piccoli insediamenti umani potevano vivere dove lo permetteva
la struttura del terreno, cioè dove la roccia permeabile in superficie,
seguita a poca profondità da strati impermeabili, consentisse la
formazione di falde acquifere poco profonde. Queste infatti possono dar vita a
sorgenti superficiali, oppure essere raggiunte attraverso l'escavazione di
pozzi.
I pozzi possono anche soddisfare i fabbisogni di grossi centri
abitati se si scava ad una profondità (oltre i 30 m) molto maggiore di
quella dello stato permeabile di superficie, in modo da raggiungere le falde
acquifere sottostanti: sfruttando la pressione dell'acqua sugli strati
impermeabili fra i quali è racchiusa, si può far salire l'acqua
fino alla sommità di tali pozzi da dove defluisce anche a migliaia di
litri al minuto. Sono questi i «pozzi artesiani» già praticati
nell'antico Egitto, (anche se il nome deriva da Artois, una località
Francia).
Anche l'acqua piovana può servire ad un approvvigionamento
idrico continuo purché possa essere conservata in bacini o serbatoi
adeguati: a questo scopo possono essere utilizzati gli avvallamenti del terreno,
opportunamente ostruiti da sbarramenti di pietra e di terra o da opere murarie.
Con dighe e sbarramenti può essere trattenuta anche l'acqua dei fiumi.
Capita che falde acquifere si trovino sui fianchi delle montagne mentre a valle
non vi sia adeguata fornitura di acqua: antichi sistemi, ancor oggi in uso per
esempio in Iran, nella Siria settentrionale e nel Nord Africa, consentono di
trasportare a valle l'acqua derivata da sorgenti di collina attraverso gallerie
inclinate, scavate nella roccia o rivestite con lastre in pietra, che evitano
l'evaporazione e mantengono l'acqua libera da inquinamenti.
La tecnica
delle condutture sotterranee, che seguivano la conformazione del terreno ed
erano munite di pozzetti di sfiato verticali, si tramise dall'Oriente al bacino
del Mediterraneo; si affermò poi in Grecia, dove si conservò fino
all'epoca del dominio romano. Quando si impose la necessità di
trasportare l'acqua a notevole distanza si dovette ricorrere a sistemi del tutto
diversi: gli acquedotti a «pendenza costante» e le condutture a
«pressione» e a «sifone». Il sifone permetteva di scavalcare
gli ostacoli senza aggirarli e senza costruire gallerie. Esso richiedeva
però condutture molto robuste, capaci di resistere alla gran forza
sviluppata dall'acqua in corrispondenza delle depressioni. Le condutture furono
costruite dai Greci in pietra forata e dai Romani anche in piombo.
I Romani
preferivano costruire canali scoperti e acquedotti in muratura a pendenza
costante (come erano del resto anche i primi acquedotti sumerici ed assiri),
che, se ponevano rilevanti problemi architettonici, consentivano di trasportare
una quantità di acqua molto maggiore, senza dover approntare - cosa assai
ardua per quei tempi - tubi di grande diametro e sufficientemente resistenti.
Mantenere costante la pendenza era un problema di non facile soluzione,
specialmente se l'acquedotto doveva superare gravi accidentalità del
terreno.
Prima di essere distribuita alla popolazione, l'acqua veniva
immessa in appositi bacini a due scomparti e con piani di fondo inclinati, nei
quali subiva un rallentamento del flusso: in tal modo le particelle in
sospensione nel liquido cadevano verso il fondo (fenomeno della decantazione o
sedimentazione) rendendo l'acqua limpida e chiara.
L'alimentazione operava
sul principio della presa costante anche perché non si conoscevano
strumenti per regolare o limitare il flusso a certe ore dalla giornata: lo
spreco di acqua rendeva necessario una vasta rete di approvvigionamento (a Roma
vi erano nell'età classica ben otto acquedotti; ancora nel IV secolo d.C.
vi erano a Roma 11 bagni pubblici, 856 bagni privati di dimensioni minori e 1352
fontane e cisterne). Nel Medio Evo solo alcune città riuscirono a
mantenere in efficienza gli antichi acquedotti romani: per il resto il
rifornimento idrico era affidato alle cisterne ed ai pozzi privati oppure ai
pozzi ed alle fontane comunali.
Il sistema impiegato dai Romani per la
distribuzione dell'acqua entro le città, che si mantenne per tutto il
Medio Evo, differiva completamente da quello attuale. Negli impianti moderni le
diramazioni principali partono generalmente da un punto di rifornimento centrale
(pompa): ad esso sono collegate alcune grosse condutture sotterranee, nelle
quali si innestano quelle per il rifornimento all'interno delle case. Presso i
Romani, invece, l'acquedotto pubblico terminava di solito in un «castello
d'acqua primario», che riforniva parecchi altri castelli a mezzo di
apposite diramazioni. Queste alimentavano a loro volta numerosi serbatoi che
erano dislocati nei diversi quartieri e dai quali i cittadini prelevavano
l'acqua di cui abbisognavano. Solo in casi eccezionali, il privato che avesse
avuto la propria abitazione a pianterreno e nelle immediate vicinanze della
conduttura principale poteva ottenere, dietro pagamento di un forte canone il
privilegio di applicare una «scatola di derivazione».
L'acquedotto romano dei miracoli a Mérida (Spagna)
L'acquedotto romano a Gard (Francia)
ARCHIMEDE E LA MECCANICA ANTICA
Se il contributo della cultura greca alla
costruzione e all'uso di congegni meccanici è stato nel complesso
modesto, con la scuola pitagorica e poi, soprattutto, in età ellenistica,
con Archimede (c. 287 - c. 212 a.C.) e con gli studiosi raccolti intorno al
Museo di Alessandria, la meccanica è diventata una vera e propria
scienza, nella quale, cioè, le macchine venivano pensate come costruzioni
geometricamente definite, le cui prestazioni potevano essere studiate
teoricamente ed esattamente previste. Archimede, ad esempio, come ricorda
Plutarco (lo storico greco del II secolo d.C., autore delle Vite parallele), era
in grado di calcolare il numero di pulegge necessarie per sollevare un dato peso
con una forza data.
Archimede è sicuramente uno dei più
grandi matematici di tutti i tempi. La sua enorme importanza nella storia della
scienza e della tecnica occidentali è legata più che alle
invenzioni che gli sono attribuite, al metodo da lui seguito. Per un verso
Archimede conferì alla meccanica la dignità di una vera e propria
disciplina matematica: la sistematicità dei suoi studi di statica (la
teoria della leva) e di idrostatica (la teoria del galleggiamento), richiamavano
la coerenza con la quale un matematico della generazione precedente, Euclide,
aveva riordinato negli Elementi (un'opera destinata a restare per millenni un
insuperato modello di rigore scientifico) le conoscenze geometriche del suo
tempo. Per un altro verso affrontò con assoluta spregiudicatezza problemi
pratici e costruttivi, verso i quali la grande maggioranza dei matematici greci,
seguendo le indicazioni e l'esempio di Platone, ostentava disinteresse o
disprezzo. Tra l'altro, come Archimede stesso ebbe a dichiarare, proprio
esperienze costruttive e considerazioni meccaniche lo avevano guidato ad alcune
tra le più importanti scoperte geometriche. E si può aggiungere
che per la stessa via riuscì a intravedere la possibilità di quel
calcolo infinitesimale che doveva attendere ancora due millenni per essere messo
a punto dai matematici europei.
Almeno in parte la lezione di Archimede fu
ripresa e continuata dagli studiosi alessandrini, nel cui ambiente, del resto,
egli stesso si era formato. A uno dei maggiori meccanici alessandrini, Ctesibio,
vissuto nel II secolo a.C., è attribuita l'invenzione di dispositivi ad
aria compressa, di pompe ad aspirazione ed anche della clessidra e dell'organo
idraulico. Il più famoso continuatore di Ctesibio fu Erone che abbiamo
già citato come inventore di un dispositivo per costruire viti. Autore di
studi sulla statica, sulle macchine semplici, sulle macchine da guerra, ecc.,
Erone è noto soprattutto per i suoi originali apparati automatici, nel
cui progetto sono inclusi moltissimi nuovi meccanismi, tra cui l'albero a
gomiti, la camma, sistemi di rotazione con contrappesi, una sorta di elementare
macchina a vapore, ecc. Si può dire che la meccanica in senso moderno sia
nata ad Alessandria, la cui scuola ha segnato la transizione tra i congegni
elementari fino allora costruiti e i dispositivi di gran lunga più
complessi, ai quali soltanto è appropriato attribuire il nome di
macchine.
Nonostante l'impressionante modernità dell'opera di
Archimede e l'assidua ricerca degli studiosi alessandrini la meccanica
nell'età classica restò un fenomeno quasi esclusivamente
intellettuale senza importanti conseguenze nel mondo della produzione.
Matematici, ingegneri e architetti producevano progetti di macchine assai
complesse, che però non venivano realizzati, o, se lo erano, erano per lo
più destinati a giochi meccanici e a macchine da teatro; i loro stessi
autori consideravano queste invenzioni come trovate più curiose che
utili. Gli strumenti di lavoro, i sistemi di manipolazione delle materie prime e
i mezzi di trasporto comunemente usati restarono fondamentalmente quelli
tradizionali e se ebbero qualche miglioramento fu per merito non di studiosi e
ricercatori, ma degli artigiani che li costruivano o li
adoperavano.
Perché l'antichità classica, pur avendo gettato
le fondamenta della moderna scienza meccanica non ha conosciuto il
«macchinismo», ossia l'uso sistematico e generalizzato delle macchine?
Secondo alcuni il mondo antico non aveva bisogno di macchine perché aveva
larga disponibilità di quella specie di macchine viventi che erano gli
schiavi. Secondo altri un effetto fortemente negativo della schiavitù fu
il profondo disprezzo che si diffuse soprattutto negli ambienti intellettuali
per il lavoro manuale: la reciproca estraneità tra la tecnica, attinente
alla sfera delle attività servili legate alla produzione dei beni, e la
scienza, attinente alla sfera delle attività liberali e di studio,
avrebbe determinato l'arresto del progresso tecnico.
Altri ancora
ritengono, invece, che la schiavitù non c'entri affatto. Sarebbe stata la
scienza greca, che, per il suo carattere speculativo ed astratto, non sarebbe
stata in grado di spingere le tecniche produttive sino al livello del
macchinismo: la meccanica, ad esempio, era ferma alla «statica» di
Archimede mentre il macchinismo è inconcepibile senza la
«dinamica» di Galilei e di Newton.
L'ultima tesi è forse
la meno convincente di tutte. La meccanica di Galilei e di Newton ha preso
l'avvio, ma con quasi due millenni di ritardo, proprio dalla riscoperta di
Archimede e della sua statica. La figura di Archimede sembra opporre una decisa
smentita anche alla seconda tesi: le meravigliose macchine belliche da lui
costruite per difendere Siracusa dall'assedio dei Romani stanno a dimostrare
che, quando c'era un interesse preciso per le applicazioni pratiche delle teorie
scientifiche, la presunta separazione tra scienza e tecnica poteva essere
facilmente superata. Quello di Archimede non è affatto un caso isolato. I
meccanici di Alessandria associavano in modo sistematico l'interesse
teorico-matematico alla pratica costruttiva e all'escogitazione
ingegneresca.
Nello specifico campo militare, poi, la ricerca sistematica e
organizzata di nuovi apparati di distruzione aveva preceduto di parecchio le
realizzazioni di Archimede. All'inizio del secolo precedente e nella sua stessa
città, Siracusa, il tiranno Dionigi il Vecchio, in vista di una guerra
con Cartagine, aveva raccolto una équipe di specialisti con il compito
specifico di progettare nuove e più micidiali armi: ne erano uscite le
prime catapulte e alcune navi da battaglia che avendo un maggior numero di remi
riuscivano a speronare le navi avversarie con molto maggiore violenza. Qualche
tempo dopo sembra che Filippo di Macedonia abbia promosso analoghe ricerche
volte a perfezionare la nuova arma della catapulta; di sicuro suo figlio,
Alessandro Magno, ne poté mettere in campo degli esemplari dotati di
potenza inusitata. Il settore dell'ingegneria militare, insomma, dove
l'incentivo a migliorare gli strumenti e le tecniche di distruzione non è
mai venuto meno, ha conosciuto un progresso sostenutissimo.
Resta da
spiegare perché un incentivo del genere, tale da promuovere un analogo
sviluppo, non abbia agito nel campo degli strumenti e delle tecniche di
produzione. La prima delle tesi che abbiamo ricordato, quella, cioè, che
attribuisce ogni responsabilità alla schiavitù, presenta una
grossa falla: a partire già dal I secolo d.C. gli schiavi non
costituirono più una manodopera abbondante e a buon mercato e tuttavia
nessuno mostrò interesse a realizzare apparati meccanici capaci di
risparmiare lavoro. Si preferì, semmai, tornare a utilizzare il lavoro
libero o, più frequentemente, quello semilibero di contadini e artigiani
che erano vincolati in un modo o nell'altro ai loro padroni o alle loro
occupazioni.
Il fatto è che i lavoratori liberi, fatta eccezione per
alcune categorie di artigiani specializzati, risultavano cronicamente
sovrabbondanti rispetto alle possibilità d'impiego. A questa situazione
di disoccupazione o di sotto-occupazione, che era particolarmente evidente (e
pericolosa) nelle grandi metropoli come Roma, le autorità pubbliche
dovevano far fronte con elargizioni di sussidi (congiaria) e distribuzioni di
grano (frumentationes), ma anche con provvedimenti volti a limitare l'impiego di
manodopera schiavile e a offrire alla plebe nuove occasioni di occupazione:
nella realizzazione delle grandi opere pubbliche, per esempio, una certa quota
di posti di lavoro era di solito riservata ai lavoratori liberi. Una situazione
di questo genere non era certo favorevole al progresso tecnico, o almeno a quel
tipo di progresso che ha come fine essenziale di risparmiare lavoro. Lo storico
romano Svetonio (c. 70 - c. 140 d.C.) racconta che nel corso dei grandi lavori
per il rinnovamento edilizio di Roma promosso tra il 69 e il 79 d.C.
dall'imperatore Vespasiano, un ingegnere aveva escogitato un apparato meccanico
per il trasporto di pesanti colonne sul Campidoglio. Vespasiano si compiacque
moltissimo dell'invenzione e premiò generosamente l'inventore, ma
proibì assolutamente di mettere in opera il congegno, proprio per non
togliere lavoro alla plebe.
Risparmiare manodopera, insomma, non
interessava a nessuno e tanto meno allo Stato, che era il principale soggetto
economico e a cui toccava in ogni caso provvedere al mantenimento della plebe.
Il solo incentivo al progresso tecnico era dunque il miglioramento della
qualità del prodotto, e entro questi limiti il mondo classico
realizzò tutto il progresso di cui aveva bisogno. La produzione di
oggetti di lusso raggiunse livelli di raffinatezza ineguagliabili. Nella
costruzione di edifici e di opere pubbliche solo da uno o due secoli gli Europei
hanno dimostrato di saper fare meglio dei Romani. In quanto a comfort abitativo,
le ricche dimore romane, dotate all'inizio della nostra era di vetri alle
finestre e di efficienti sistemi di riscaldamento centrale, non avevano davvero
niente da invidiare alle nostre case ed erano sicuramente superiori alle dimore
signorili dell'Europa medievale e moderna. Nel campo militare, infine, dove non
si è mai trattato di risparmiare forza-lavoro, ma semmai di farne strage,
le prestazioni delle macchine belliche romane sono rimaste insuperate per molto
più di un millennio, fino alla messa a punto di armi da fuoco
efficienti.
[Figura: Questa catapulta lanciasassi di grandi dimensioni (la
sua struttura principale che conteneva la slitta e il vericello misurava
più di cinque metri) era in grado di lanciare pietre di 25 chili e
più. La grande innovazione rispetto alla catapulta era rappresentata dal
tenditore, ossia dalle due molle di torsione (che nella figura a destra sono
viste frontalmente) costituite da due fasci di corde di budello. Gli studiosi di
Alessandria tra il III e il II secolo a.C. riuscirono a mettere a punto una
formula matematica che esprimeva il rapporto tra il "calibro" della catapulta e
la lunghezza della freccia o il peso della pietra da lanciare. Il "calibro" era
il diametro della molla (o più esattamente del foro nel quale veniva
alloggiato e messo in tensione il fascio di corde) e in rapporto alla sua
grandezza venivano determinate tutte le altre grandezze della macchina.]
Catapulta lanciasassi di grandi dimensioni
Simulazione tridimensionale del funzionamento di un trabocco
ARTI SERVILI E ARTI LIBERALI
Il disprezzo che le società
schiavistiche dell'antichità hanno nutrito per qualsiasi forma di lavoro
manuale ha certamente frenato la ricerca tecnologica, che richiede
familiarità con i processi produttivi, interesse per la manipolazione dei
materiali, capacità di fare delle cose con le proprie mani. Nel mondo
classico Ie tecniche o «arti» (da non confondere però con
quelle che oggi indichiamo con questo termine, ossia le arti figurative, la
musica, ecc.) venivano distinte in servili e liberali. Le prime erano appunto
quelle che oggi chiamiamo semplicemente «tecniche»: «si
esercitano con le mani - scriveva il filosofo romano Lucio Anneo Seneca (c. 4
a.C. - 65 d.C.) in una lettera al suo amico Lucilio - e servono a procurarsi i
mezzi per vivere; in esse non vi è alcuna pretesa di bellezza o di
nobiltà morale». Le seconde erano dette anche
«enciclopediche» e comprendevano le discipline intellettuali che sono
alla base di ogni buona cultura generale, e cioè, secondo la
classificazione più comune nell'antichità, ereditata poi dalle
scuole medievali: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria,
musica e astronomia.
Un terzo gruppo di tecniche era rappresentato dalla
«teatrica», ossia dalle arti che, come diceva Seneca, «servono
per passatempo [e] si propongono di dar piacere agli occhi e agli orecchi».
Non si trattava di quelle che oggi si indicano genericamente con l'espressione
«arti dello spettacolo» (teatro, danza, ecc.), ma di tecniche in senso
proprio (e in particolare di tecniche meccaniche) applicate allo spettacolo e
dirette ad ottenere quelli che chiameremmo «effetti speciali». Come
spiegava Seneca, «fra queste arti c'è quella dei costruttori di
congegni, i quali inventano ordigni che si sollevano da soli, e piani di edifici
che si innalzano senza il minimo rumore e altri vari sorprendenti spettacoli
allorché o si aprono oggetti che erano saldamente connessi nelle loro
parti o spontaneamente si uniscono quelli che erano disgiunti o a poco a poco si
abbassano quelli che erano elevati: ciò attira l'ammirazione degli
ignoranti, che si stupiscono di tutti gli effetti inaspettati e di cui ignorano
le cause».
È evidente che, per quanto Seneca apprezzasse
esclusivamente le arti liberali o, per meglio dire, «quelle che indirizzano
tutti i loro sforzi alla virtù», la teatrica gli sembrava, tra le
tecniche, la meno ignobile, proprio perché non aveva niente a che fare
con la produzione di ricchezza e si avvicinava di più ad un mero
esercizio dell'ingegno. Le invenzioni utili, scriveva, «sono invenzioni di
esseri inferiori; la sapienza siede su un trono più alto e i suoi
ammaestramenti sono diretti non alle mani, ma alle anime. [...] Essa, lo ripeto
ancora una volta, non costruisce oggetti utili per i bisogni della vita».
Anche gli ingegneri della scuola di Alessandria, che pure avevano un
atteggiamento molto più costruttivo nei confronti delle tecniche
produttive e del mondo del lavoro si dilettavano nel progettare giochi meccanici
e complicati apparati spettacolari, senza sentirsi affatto imbarazzati dalla
loro pressoché totale inutilità.
DIVISIONE TECNICA DEL LAVORO E DIVISIONE DELLA SOCIETÀ IN CLASSI
Senofonte, uno dei grandi storici della
Grecia classica, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., ha dedicato un brano
celebre della sua Ciropedia (una specie di storia romanzata di Ciro il Grande e
della sua educazione) alla divisione del lavoro, il cui principale beneficio gli
pareva che consistesse nella migliore qualità del prodotto conseguente
alla più alta specializzazione del produttore. Nella società
moderna il principale vantaggio della divisione del lavoro consiste nel
risparmio di tempo-lavoro che essa consente di realizzare e che si traduce in un
minore costo di produzione.
Nelle grandi città gli articoli
dell'artigianato presentano una fattura più raffinata [...]. Nelle
piccole città avviene che la stessa persona fabbrichi letti, porte,
aratri, tavoli, e magari costruisca persino le case, ben lieta di avere, con
tanti mestieri, una clientela sufficiente per campare. Ma e impossibile che un
uomo, che fa tanti lavori, li faccia tutti bene. Nelle grandi città,
invece, grazie all'alto numero di persone che hanno bisogno di questo o
quell'oggetto, basta anche una sola attività per dar da vivere a un uomo,
e spesso non è neppure necessario svolgerla per intero. E infatti
c'è chi fa solo scarpe per uomo, e chi solo scarpe per donna; si
dà addirittura il caso che uno riesca a vivere limitandosi semplicemente
a cucire le scarpe, oppure a tagliare il cuoio, o a tagliare soltanto vestiti,
oppure, senza far nulla di tutto questo, mettendo semplicemente insieme i vari
pezzi. Ne consegue inevitabilmente che chi passa tutta la vita in
un'attività così limitata, debba anche eseguirla meglio degli
altri. La stessa cosa avviene pure in fatto di vivande. Chi ha un solo servo per
assettare i divani, apparecchiare la tavola, impastare il pane, preparare ora un
piatto ora un altro, deve per forza, credo, tenersi i cibi così come
vengono. Ma là dove un servo ha la precisa mansione di far bollire la
carne, un altro di farla arrostire, un terzo di far bollire i pesci, un quarto
di farli arrostire, un quinto di preparare le pagnotte, e neppure le pagnotte di
ogni specie, perché basta che sappia dare loro la forma in voga, per
forza, io credo, un prodotto eseguito con questo sistema deve riuscire molto
superiore sotto ogni riguardo agli altri.
Quella di cui parla
Senofonte è una distinzione puramente tecnica di mansioni tra diversi
lavoratori che collaborano insieme nella produzione. Quella a cui fa riferimento
il notissimo apologo di Menenio Agrippa non è, invece, semplice divisione
tecnica del lavoro nell'ambito della produzione, ma divisione di ruoli
nell'ambito della società tra chi comanda e chi obbedisce. tra chi decide
per gli altri e chi produce per gli altri: è cioè divisione in
classi, diseguaglianza sociale. Che questa divisione (o diseguaglianza) sociale
va a beneficio di tutti, come pretende Menenio Agrippa, è una tesi che le
classi dominanti ripropongono da millenni infinite varianti; le classi dominate
(come anche si dice «subalterne») sono però, almeno di solito,
di tutt'altro parere. L'episodio a cui si riferisce l'apologo di Menenio Agrippa
è raccontato dallo storico romano Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.): scontenta
dei suoi governanti, la plebe di Roma aveva messo in atto una sua tipica forma
di protesta, la secessione, che consisteva nell'abbandonare in massa la
città.
Si trattava in sostanza di una sorta di sciopero
generale.